Indipendenza tecnologica. L’obiettivo della Cina di Xi Jinping è chiaro: produrre in casa tutto quello che serve. O almeno provarci. A cominciare dalle terre rare: litio, cobalto, magnesio e quant’altro serva a produrre le batterie per auto ibride ed elettriche. Concentrare nelle proprie mani l’oro del futuro per soddisfare il proprio fabbisogno e pensare all’esportazione. Un invito alla preoccupazione per la strategia europea di proibire la vendita dal 2035 di veicoli benzina e diesel. L’eventuale dipendenza occidentale ha ragioni storiche: negli anni la produzione di questi minerali è stata lasciata alla Cina perché necessita di un gran fabbisogno di acqua, è energivora e altamente inquinante. Cosa di meglio allora che dirottare il tutto in quella che è considerata la fabbrica del mondo?
Il risultato è evidente: secondo gli analisti di Sne Research due produttori cinesi, Catl e Byd, da soli hanno oltre il 50% del mercato delle batterie per auto elettriche. Se si somma il contributo di aziende più piccole la quota cinese supera di slancio il 60%. Non è un caso allora che in tema di indipendenza tecnologica la Cina abbia spinto sull’elettrico, ben sapendo che puntare su benzina e diesel avrebbe significato essere sotto scacco dall’Occidente. Una scelta dettata da Wan Gang, ingegnere formatosi in Germania e con un lungo trascorso in Audi, che da ministro della Scienza e Tecnologia nel 2007 puntò con forza all’elettrificazione.
Oggi il mercato automobilistico cinese è il primo al mondo con 23,3 milioni di unità vendute lo scorso anno e una crescita del 10% rispetto al 2021; di queste 5,3 milioni sono elettriche, alle quali si aggiungono 1,5 milioni di ibride ricaricabili plug-in, con una crescita di oltre il 90% in un anno. Per dare un’idea, in Europa lo scorso anno si sono vendute poco più 1,1 milioni di elettriche, 800mila negli Stati Uniti. Si stima che quest’anno si possa superare quota 8 milioni (fonte Financial Times) e che in Cina circolino circa 13 milioni di elettriche, pari al 4% del totale. La produzione locale di auto elettriche serve soprattutto a soddisfare la grande domanda interna, anche se l’export inizia a crescere: secondo l’associazione dei produttori cinesi di auto (Caam), nel corso del 2022 sono uscite dal Paese circa 2,5 milioni di vetture, 680mila delle quali ibride plug-in ed elettriche. Entrando nel dettaglio, tra queste ci sono molte Tesla e Volvo prodotte nel Paese asiatico e poche vetture dei marchi di grido locale come Byd, Great Wall, Xpeng e Nio.
Piccoli numeri (ma non troppo) che in Europa preoccupano gli addetti ai lavori, tanto più se secondo Forvia, una delle più grandi aziende di componentistica, produrre un’elettrica in Cina costa in media 10mila euro di meno rispetto al Vecchio Continente. Il caso estremo? La start-up Matrix Motors - che ha alle spalle il colosso delle vendite online Alibaba - ha lanciato la citycar 01 (autonomia di 120 chilometri e potenza di 15 chilowatt) a 29.800 yuan, l’equivalente di 4mila euro. «I rivali cinesi sono i più temibili perché lavorano duramente e in modo intelligente», ha aggiunto, nel caso ci fossero ancora dubbi, Elon Musk, numero uno di Tesla. Nel frattempo però l’unica vera invasione cinese in Europa è finanziaria e ha il viso sorridente di Li Shifu: la sua Zheijang Geely Holding è proprietaria di Volvo, Polestar, Lynk & Co, London Taxi, ha la maggioranza di Lotus, quasi il 10% di Daimler e circa l’8% di Aston Martin. Oltre al controllo dell’italiana Benelli. Non tutto però in Cina - per l’auto e per l’indipendenza tecnologica – va liscio. Il rischio arriva dai rapporti sempre difficili con Taiwan e da un signore sconosciuto ai più che fa parte della generazione di fenomeni digitali, alla pari di Steve Jobs, Bill Gates e Jeff Bezos: l’ultranovantenne Morris Chang. L’imprenditore taiwanese–americano ha fondato la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (Tsmc), la più grande fonderia di silicio al mondo (53% del mercato). A lui, nonostante la tensione tra i due Paesi, la Cina si è legata per la fornitura di semiconduttori necessari a ogni dispositivo digitale, auto comprese.
I microchip sono infatti in prima fila tra le importazioni cinesi e il target che porta la produzione locale al 70% del fabbisogno entro il 2025 è lontano dall’essere raggiunto. Il risultato immediato è un rallentamento sulla strada dell’intelligenza artificiale e della guida autonoma e non poco tensioni nelle fabbriche delle Case automobilistiche cinesi. La preoccupazione di Pechino è soprattutto nel legame tra Chang e gli Stati Uniti: Tsmc investirà 40 miliardi di dollari per ampliare lo stabilimento di Phoenix in Arizona e all’avvio dei lavori ha presenziato il presidente Joe Biden che ha sottolineato come l’operazione «sia molto importante per vincere la competizione economica del 21esimo secolo». Confermato anche uno stabilimento Tsmc per la produzione di microchip in Germania. E questa volta all’auto cinese non resta che guardare.