L'auto elettrica è pronta ad andare in America. Ma non erano la Cina e l’Europa che erano destinate a fare da battistrada, con il Vecchio Continente a fare il ritmo per tutto il mondo con le sue normative più severe e le scadenze più prossime in tema di emissioni? Tutto vero, fatto sta che dal 16 agosto 2022 è come se la Corrente del Golfo abbia cambiato verso e il vento dell’auto elettrica abbia cominciato a soffiare con forza verso Ovest. A farlo cambiare è stato l’Inflaction Reduction Act (IRA), la legge con la quale il presidente Joe Biden ha preso di petto la questione della transizione energetica con un investimento di ben 370 miliardi dei quali 135 destinati alla mobilità.
Un piano imponente che punta a fare in modo che almeno il 50% delle auto e dei pick-up acquistati dagli statunitensi nel 2030 saranno ad emissioni zero. La differenza con l’Unione Europea non è soltanto nelle cifre, ma nel metodo: si parte dai soldi per i clienti e l’industria e poi si arriva ai divieti.
Le cifre: il provvedimento di Washington prevede 7,5 miliardi di euro per creare un’infrastruttura di ricarica pubblica composta da 500.000 stazioni di ricarica, 10 miliardi per gli scuolabus, un miliardo per i mezzi pesanti e un piano di incentivi che prevede fino al 2032 crediti d’imposta pronti a coprire il 30% del costo di un veicolo commerciale se quello nuovo è elettrico e del 15% se è provvisto di un sistema di propulsione ibrido. Ci sono poi 7.500 dollari per quelli nuovi, con un limite di prezzo di 55mila dollari per le vetture e di 80mila per suv, truck e van e con la condizione che il beneficiario non debba superare i 150mila dollari, 225mila se si tratta di un capofamiglia e 300mila per le coppie sposate. Ci sono anche 4mila euro di incentivo per i veicoli usati a patto che questo importo non superi il 30% del prezzo che, in ogni caso, non deve superare i 25mila dollari con la condizione che il reddito del beneficiario non superi i 75mila dollari, i 112.500 dollari per i capifamiglia e i 150mila dollari per i coniugi in comunione dei beni. Ma questi incentivi hanno un’altra condizione ed è che le vetture devono essere prodotte sul suolo americano con batterie le cui materie prime critiche (litio, nickel, cobalto, manganese ed altre ancora) siano sotto il controllo delle aziende nazionali.
Un atto protezionistico bello e buono rispetto anzitutto alla Cina, che controlla il 70-80% di queste materie, ma anche verso l’Europa che vede azzoppato il vantaggio competitivo che avrebbe voluto costruire con un approccio fondato fondamentalmente sui limiti alle emissioni e un’industria che, dovendosi adeguare, avrebbe sviluppato il più forte ecosistema per l’auto elettrica. Una macchina pronta non solo a soddisfare il mercato interno, ma a guardare oltre i propri confini, Nordamerica compresa. In più, l’amministrazione Biden ha messo a disposizione dei costruttori di automobili e di batterie un imponente piano di sovvenzioni e prestiti che può coprire fino all’80% degli investimenti. Roba che ha fatto venire l’acquolina in bocca all’industria locale e drizzare le orecchie proprio ai costruttori europei o che vedevano nell’Europa il luogo migliore dove investire. Secondo uno studio dell’associazione Transport&Environment, a causa dell’IRA sarebbe a rischio il 68% degli 1,2 TWh di capacità produttiva prevista per il 2030. Anche altri analisti segnalano, pur con dimensioni diverse, gli stessi rischi.
Secondo Bloomberg, sono già 13 miliardi gli investimenti attirati grazie all’IRA. Per chi costruisce auto elettriche, batterie o celle sul suolo statunitense c’è un bonus di 35 dollari a kWh e questo, secondo la UBS abbatterebbe del 25-30% il costo di produzione delle batterie che rappresenta il 40% dell’intero veicolo. Secondo indiscrezioni, la Volkswagen starebbe pensando di spostare Oltreoceano almeno una delle sei gigafatory previste inizialmente in Europa e, secondo il Financial Times, se lo facesse potrebbe rastrellare 9-10 miliardi di incentivi. Intanto farà il pieno di sussidi prendendosi quelli canadesi per la nuova gigafactory e quelli statunitensi per la produzione di vetture in Tennessee. Anche Daimler e Stellantis (insieme a LG con un investimento di 5 miliardi di dollari canadesi), stanno seguendo la stessa strategia basandosi anche sulla possibilità di attingere alle risorse minerarie locali. Toyota spenderà 2,5 dei 5,6 miliardi di dollari previsti globalmente per le batterie nel nuovo impianto in North Carolina e in Europa farà solo le quelle per i suoi ibridi plug-in. Honda spenderà in Ohio 4,4 miliardi: 3,5 nel nuovo impianto e 700 milioni per la riconversione di impianti esistenti.
La Ford che chiude lo stabilimento di Saarlouis in Germania, taglia mille posti a Valencia e altre 3.800 persone tra ingegneri e amministrativi in tutta Europa investe 3,5 miliardi con SK Innovation nella sua nuova gigafactory del Kentucky e 5,6 miliardi in BlueOval City, destinato a diventare il centro di riferimento per l’elettrificazione della casa di Dearborn. BMW investirà 1,7 miliardi con Envision AESC: 1 miliardo a Spartanburg e 700 milioni nella vicina Woodruf solo per le batterie. Tesla investe altri 3,6 miliardi in Nevada e 5 miliardi in Messico rispetto ai 4 miliardi per Berlino. La sproporzione è evidente e pone un serio problema per l’Europa che voleva consegnare alla propria industria le chiavi dell’auto elettrica mondiale e invece ha scoperto che quell’auto se la sta accaparrando qualcuno che è disposto a pagare molto di più per metterla nel proprio garage. Serve un cambio di passo deciso mentre l’industria europea manda segnali ben precisi alla politica. «Manteniamo il nostro piano per l’Europa – ha dichiarato un portavoce anonimo di Volkswagen alla Reuters – ma abbiamo bisogno delle giuste condizioni quadro». A buon intenditor…